:: ANIMALI/CHI LI USA IN LABORATORIO
19 Dec, 2003
Autore:OLS

L'ESPRESSO ONLINE - 11 DICEMBRE 2003

di Andrea Benvenuti


A Savona hanno accusato i responsabili dell’Enpa, l’Ente di protezione animali, di uccidere cani e gatti con una piccola camera a gas formata da una scatola di legno e un tubo di gomma collegati a una bombola di anidride carbonica. A Bari, invece, hanno bloccato la partenza di un carico di 40 beagle diretti in Svizzera e in Germania per essere impiegati nella sperimentazione. A Reggio Emilia, ancora, un pubblico ministero sta indagando su due persone che lo scorso novembre avrebbero rubato altri 130 beagle d’allevamento dall’azienda Morini di San Polo d’Enza.

Protagonisti di queste azioni e imputazioni sono animalisti, antivivisezionisti, militanti e strenui difensori di cani, gatti, topolini, maiali, pecore, uccelli e quant’altro viene utilizzato come cavie per la sperimentazione scientifica, destinata per lo più a fini commerciali. Conducono da anni una guerra sporca, tra blitz e boicottaggi. Sul banco degli imputati hanno messo le aziende, i centri di ricerca e le università che ricorrono alla vivisezione per studiare i livelli di tossicità delle sostanze contenute nei cosmetici, nei rossetti e creme di bellezza, nei medicinali e detersivi, nei lubrificanti, vernici e pesticidi. Un volume d’affari da capogiro che comprende anche gli esperimenti sugli organismi geneticamente modificati, quelli in campo odontoiatrico e bellico ma anche gli esperimenti per la cura dell’Aids, del cancro, del diabete e dell’Alzheimer, solo per fare alcuni esempi.

Secondo i dati della Lav, la Lega antivivisezione, «sono 50 mila gli animali che muoiono ogni anno per gli esperimenti nei laboratori italiani» nonostante esistano in commercio «8 mila prodotti non testati» ma ancora non facilmente individuabili nella rete di distribuzione commerciale. Finora, si sapeva soltanto quanti fossero i centri che avessero presentato richiesta al ministero della Sanità per esercitare la vivisezione, ma non chi avesse poi ricevuto l’autorizzazione a praticarla. «Adesso, finalmente, siamo a una svolta», racconta Sabina Bietolini degli Animalisti italiani Peta. «Nel senso che sappiamo i nomi di 233 centri di vivisezione che hanno dichiarato al ministero della Salute di aver utilizzato animali». Sono distribuiti un po’ in tutte le Regioni, con la Lombardia capofila (con 64 centri autorizzati), seguita da Lazio (35), Veneto (20), Toscana (16), Emilia Romagna (15) e Piemonte (14), soltanto per fare alcuni esempi.

Dei 233, 43 sono centri di ricerca pubblica, 104 università, dieci strutture ospedaliere e 76 aziende e società private. Nell’elenco ricostruito dagli animalisti su fonte del ministero della Sanità sono presenti nomi di tutto rispetto: Boehringer Ingelheim Italia, multinazionale del settore farmaceutico impegnata nella cura di patologie del sistema cardiocircolatorio, respiratorio e immunologico; Fidia, che svolge attività di ricerca nei settori dell’osteoarticolare, dell’oncologia e delle neuroscienze. E ancora il gruppo farmaceutico Serono e le aziende Fatro, Chiesi e Tecnogen.

La sostanza della guerra dichiarata al ministero della Sanità e ai centri autorizzati, oltre a una questione di principio e alla possibilità di ricorrere a pratiche alternative alla vivisezione, riguarda anche i diritti dei consumatori, che molto spesso non hanno la possibilità di scegliere tra un prodotto testato e uno non testato. Esiste infatti anche un elenco delle aziende che hanno dichiarato, con tanto di certificazione, di rispettare lo «standard unico di riconoscimento dei prodotti» elaborato dalle 50 più importanti associazioni animaliste del mondo coordinate dalla Coalizione europea contro la vivisezione.

È venuta fuori una lista di 150 aziende che si sono impegnate a non condurre e commissionare test sugli animali e a non comprare materie prime da aziende che li praticano. Tutti prodotti per l’abbigliamento, la cosmetica e l’alimentazione che hanno il marchio «non testato sugli animali». Per adesso il giro d’affari è ancora ridotto, ma la rete di distribuzione vista la sensibilità crescente dei consumatori si sta attrezzando, ed è frequente trovarli nelle erboristerie, farmacie, alimentazione naturale, ma anche nei supermercati e centri commerciali.

Secondo i dati della Peta Italia, in Italia, tra il 1998 e il 2000 il numero degli animali destinati alla vivisezione è diminuito, passando da oltre un milione a circa 900 mila. Eppure continuano ad aumentare i centri che chiedono di praticare la vivisezione, tanto che in due anni «si è registrato un aumento di circa il sei per cento». E intanto il quadro legislativo e istituzionale non è dei migliori. Alla fine dello scorso anno il Consiglio e il Parlamento europeo hanno raggiunto un accordo sulla proroga che permette alle aziende di testare i livelli di tossicologia dei cosmetici sugli animali per altri dieci anni. In tutti i Paesi Ue sono partite campagne, raccolte di firme, petizioni, proposte di legge di iniziativa popolare, ma sembra che l’accordo sarà ratificato entro giugno senza alcuna possibilità di modifica. Detto questo, gli attivisti non si danno per vinti, e dal 12 al 19 aprile, in occasione della settimana mondiale contro gli animali da laboratorio, hanno già organizzato, anche in Italia, una serie di iniziative clamorose per far capire ai parlamentari europei e italiani che l’accordo deve essere cambiato.

Lav, Peta Italia, Oipa, l’Organizzazione internazionale per la protezione degli animali e Lndc, la Lega nazionale per la difesa dei cani, hanno mobilitato migliaia di attivisti e sono pronti a blitz, sabotaggi e manifestazioni a suon di fischietti, tamburi, trombe e cartelloni contro la vivisezione. L’obiettivo, come è già successo con i prodotti geneticamente modificati, è coinvolgere i consumatori, ma in Italia non è facile. Se da un lato i consumatori del Belpaese sono grandi amici di cani, gatti, pappagalli e criceti d’appartamento, dall’altro spendono miliardi di euro ogni anno in prodotti cosmetici.