PSICOLOGIA
E DIRITTI ANIMALI
Approfondimenti:
Tra psicologia
e animalismo
La relazione tra l'uomo e il cane
Trattati come animali
Zoo e circhi
TRA PSICOLOGIA E ANIMALISMO
di Annamaria Manzoni, psicologa, psicoterapeuta
Il comportarsi in modo fisicamente crudele con gli animali è
considerato nel DSM IV, manuale diagnostico dei disturbi mentali
in uso nel mondo occidentale, uno dei criteri che permettono di
diagnosticare la presenza di un Disturbo della Condotta in età
infantile o adolescenziale; l’avere usato crudeltà
fisica agli animali, ancora nel DSM-IV, è considerato un
antecedente diffuso nel Disturbo Antisociale di Personalità.
Di fatto è già da alcuni decenni che gli studi psicologici
hanno fatto emergere significative connessioni tra la violenza contro
gli animali, agita dai bambini, e lo sviluppo contestuale o futuro
di disturbi di personalità.
Ciò corrisponde per altro ad un sentire abbastanza diffuso
grazie al quale molti adulti sinceramente inorridiscono davanti
alle crudeltà dei bambini sugli animali, soprattutto quando
queste raggiungono espressioni particolarmente sadiche ed inusuali,
che travalicano atteggiamenti di violenza meno esplosiva, etichettate
come “normali”.
Quindi: il sentire comune e la pratica clinica convergono nel ritenere
riprovevole e indicatore di patologia il praticare crudeltà
fisiche sugli animali. Ineccepibile.
Ma l’esistenza di una inconciliabile marcata contraddizione
non può non emergere se si mettono a confronto queste convinzioni
con la diffusa brutalità quotidianamente espressa nei confronti
degli animali da quello stesso mondo adulto che contestualmente
la stigmatizza con tanta decisione. Non è necessario pensare
ai maltrattamenti ai limiti o fuori dalla legalità, passibili
di denuncia, come i combattimenti tra cani o le corse di cavalli
in situazioni estreme, e nemmeno alla caccia, che pur nella sua
legittimità conserva una discutibilità fuori discussione:
basta riferirsi alla nostra cultura che ammette e in tanti modi
incentiva il consumo di carne e di pesce, con ciò che questo
comporta: dagli allevamenti intensivi che sono veri e propri lager,
alle mutilazioni inflitte ai piccoli di alcune specie, alle sofferenze
collegate ai trasporti per viaggi interminabili di animali vivi,
al rituale macabro delle macellazioni a catena di montaggio. Non
fosse altro che per le recenti epidemie di “mucca pazza”
è stato impossibile per chiunque sottrarsi allo spettacolo
quotidianamente somministrato dai media di grossi animali appesi
ai chiodi, tagliati, squartati, affettati; spettacolo inframezzato
da immagini ante mortem dei suddetti animali, i cui faccioni miti
contrastavano con la catena al collo e il cartellino di riconoscimento
pinzato nelle orecchie; e poi ancora spezzoni di filmati di mucche
tremebonde, incapaci di stare ritte sulle zampe per via del morbo,
e poi inceneritori infiniti; a completamento di informazione, immagini
di allucinanti allevamenti intensivi e di “rottamazione”
di tanti animali ancora vivi, ma inservibili.
La descrizione del trattamento a cui gli animali da macello sono
sottoposti sarebbe infinitamente lunga: risulta comunque egregiamente
fotografata nelle parole di alcuni personaggi illustri:
Gli alimenti di origine animale costano vere e proprie ecatombe.
Non penso che una persona sensibile ai problemi della sofferenza
negli animali di laboratorio possa rimanere insensibile al trattamento
crudele cui sono sottoposti gli animali di allevamento. Anche la
pratica della macellazione risveglia un senso di ripugnanza.
(Umberto Veronesi).
La vera prova morale dell’umanità è rappresentata
dall’atteggiamento verso chi è sottoposto al suo dominio:
gli animali. E sul rispetto nei confronti degli animali, l’umanità
ha combinato una catastrofe, un disastro così grave che tutti
gli altri ne scaturiscono. (Milan Kundera).
Scopo di questo articolo non è andare a elicitare una sterile
indignazione, ma cercare di comprendere e interpretare una realtà
apparentemente schizofrenica, la realtà di tanti milioni
di persone assolutamente per bene che convivono con tranquillità
con questa dolentissima sofferenza, e coniugano il biasimo per i
comportamenti giudicati crudeli dei bambini con l’indifferenza
verso crudeltà analoghe erette a sistema.
Una chiave per la decodificazione di questo fenomeno, tanto grande
quanto mi sembra poco esplorato, può essere offerta dagli
studi di A. Bandura e poi di G.V. Caprara sulle molte facce dell’aggressività,
da questi autori vista nel suo aspetto intraspecifico, vale a dire
all’interno della specie umana: molte delle loro osservazioni
sono a mio avviso esportabili all’interpretazione di quella
forma di aggressività interspecifica, che caratterizza grandissima
parte del rapporto dell’uomo con gli animali.
Il concetto cardine è quello del disimpegno morale:
la violenza non è solo quella che proviene dall’azione
di impulsi sfuggiti al controllo della coscienza, ma è molto
spesso frutto del pensiero, dell’interpretazione che si dà
dei fatti; nello specifico uccidere, vivisezionare, macellare gli
animali sono azioni che avvengono nell’ambito di una totale
legittimazione sociale e quindi all’interno della conservazione
di un positivo rapporto con la realtà circostante, rapporto
che anzi maggiormente migliora nella misura in cui la propria identità
viene sancita e riconosciuta. Così, per esempio, lo studente
come il ricercatore che taglia, ustiona, acceca un gatto ridotto
all’impotenza non vede sé stesso come un sadico nell’esercizio
delle sue più esecrabili performance, ma secondo l’immagine
che vede riflessa nello sguardo e nel pensiero della gente, vale
a dire attraverso il suo ruolo pubblico, quello di una persona che
agisce nel pieno rispetto di regole sociali e nell’interesse
di tutti: pertanto, grazie ad un meccanismo di “disattivazione
selettiva della coscienza”, è legittimato a non provare
senso di colpa alcuno, nessuna vergogna, addirittura nessuna pena
per l’animale: di lui percepisce solo l’aspetto di cavia,
mentre tutte le caratteristiche di essere vivente, senziente e sofferente
vengono relegate nell’area di non percezione, chiusa alla
coscienza.
Sempre in riferimento agli studi sopra citati, fondamentale risulta
il concetto di giustificazione morale: il male
inflitto ha scopi meritevoli: quindi si viviseziona al fine di incrementare
il progresso scientifico, si macella per fornire alla gente i necessari
alimenti proteici, persino si tormenta fino all’indicibile
il toro per mantenere viva attraverso la corrida l’irrinunciabile
tradizione macha della popolazione. E via uccidendo.
Etichettamento eufemistico: basta usare le parole
o le immagini adeguate e la realtà con i suoi orrori si allontana.
Si parla di “consumo di carne”, di “proteine di
origine animale”, di Simmenthalmentebuona, di Tonnocosìtenero:
e l’animale e la sua sofferenze scompaiono dietro tali espressioni
neutre o simpatiche. Le tecniche pubblicitarie in particolare la
fanno da padrone nel trasformare la realtà: il prosciutto
si perde sullo sfondo di balletti eccitati, il tonno scompare in
una calda relazione nonni-nipoti, le carni inscatolate vengono nobilitate
dal gusto e dalla fretta di tanti yuppies: la seduttività
delle situazioni, il divertimento, la ripetitività degli
slogans cancellano il sangue di mattatoi e tonnare. E ancora, a
buon completamento, ecco altre immagini di mucche felici oppure
di porcellini sorridenti, trasformazione della realtà ad
uso e consumo dei più piccoli, rispetto ai quali il mondo
adulto appare davvero dissociato: circonda il mondo dell’infanzia
della presenza di animaletti di peluche, li umanizza nelle favole,
solletica l’espressione dell’affetto infantile verso
le bestie, e alimenta il desiderio di una tenerezza destinata a
diventare rimpianto inconscio senza mai essere divenuta realtà.
Confronto vantaggioso: con tutto quello che succede
nel mondo, le guerre, i bambini che muoiono di fame, i terremoti,
le inondazioni, come è futile preoccuparsi di animali! Anzi
no: è quasi indecente Al di là del fatto che alla
luce di questa teoria nessuna causa varrà mai la pena di
essere difesa, perché comunque ce ne sarà sempre un’altra
più nobile, questo atteggiamento appare piuttosto la razionalizzazione
di un disinteresse personale, che trova più vantaggioso esprimersi
attraverso il pathos di una giustificazione umanitaria che la dichiarazione
di uno sterile disimpegno.
Dislocamento delle responsabilità: ognuno
è solo esecutore, esecutore senza colpa di decisioni prese
da qualcun altro, che sta più in alto. Ma non è questo
l’atteggiamento che rende ogni giorno possibili guerre, stragi
e violenze gratuite di ogni tipo? L’identificazione con il
diligente dipendente porta a lavorare bene, perseguendo l’obiettivo,
che è il guadagno: se ciò si scolla da un proprio
codice morale personale, il bene, cioè il guadagno, sarà
perseguito con tanta più efficacia quanto maggiore sarà
lo sfruttamento attuato sugli animali. Gli echi delle parole di
tanti ottimi esecutori degli ordini del Fuhrer molto spiegano di
questo meccanismo.
Diffusione delle responsabilità: tutti fanno
così, è normale, che cosa c’é di strano?
La famiglia, il gruppo di appartenenza, la società, lo stato,
il mondo…Probabilmente questo è uno dei meccanismi
di maggiore valenza: come si può anche solo pensare di mettere
in discussione una realtà universale, che è sempre
esistita, che esiste e, in questo modo, sempre esisterà?
Solo un pazzo o un eroe potrebbero farlo: la capacità di
accorgersi che il re è nudo pare svanire con l’infanzia
e per recuperarla bisogna fare ricorso all’esatto opposto
della naturalezza e spontaneità infantile: bisogna fare appello
alla elaborata speculazione intellettuale che in modo complicato
va a ricostruire ciò che è naturale.
Distorsione delle conseguenze: il campionario è
infinito: basta ricordare la convinzione che “tanto gli animali
non soffrono” (chi non ha un’anima notoriamente non
lo fa….), che permette che al ristorante si scelga di persona
l’aragosta da far bollire viva in cucina mentre, nell’attesa,
si sorseggia l’aperitivo; oppure il “ma sono allevati
apposta” in cui il reale rapporto di circolarità che
unisce le due affermazioni (li allevano perché li mangiamo
perché li allevano perché li mangiamo) viene negato
per essere sostituito da quello più rassicurante e autoassolvente
di causa-effetto.
Demonizzazione della vittima: è un animale, non è
un uomo, è quindi diverso: ciò che non è come
noi non ha uguale diritto di cittadinanza; e se non è come
noi o è pericoloso o è inferiore e come tale va trattato:
notoriamente “il nemico ha la coda”. Ed ecco quindi
la legittimazione della caccia, eretta a rango di sport, dove anche
piccoli e indifesi volatili diventano prede da conquistare, magari
con fucili caricati a pallettoni destinati a disintegrarli; se poi
la caccia è al cinghiale, alla tigre, al rinoceronte, allora
la bardatura è quella del guerriero: si va contro un nemico
pericoloso: bisogna essere bene armati, decisi, feroci, come il
compito richiede. E dopo l’uccisione l’animale, colpevole
di avere disperatamente cercato di fuggire, alla propria morte e
all’insensatezza altrui, diventa il trofeo di un coraggio
presunto, reale icona di una violenza gratuita.
Attribuzione di colpa alla vittima: si ribalta
la responsabilità. E allora ecco i maltrattamenti ai danni
degli animali domestici, perché non ubbidiscono, perché
non capiscono, perchè non si comportano come vorrebbe il
padrone; ecco ulteriori violenze gratuite agli animali al mattatoio
perché esprimono un’ultima terrorizzata ribellione
alla propria morte, intralciando il lavoro dei loro uccisori.
A tutti questi meccanismi ne vanno aggiunti almeno altri due, a
cui attingiamo a piene mani nella vita quotidiana: la rimozione,
per cui “Certo, se ci si pensa…, ma è meglio
non farlo, perché tanto non serve a niente”: il meccanismo
sembra funzionare egregiamente; e la negazione: “Non esiste
alcun problema” quasi che il salame e il prosciutto acquistati
al supermercato avessero perso qualsiasi connessione con il maiale
da cui provengono: si sono materializzati lì, sui banconi.
Tutti i meccanismi descritti, nella loro complessa articolazione
e nel loro interagire, mi sembrano poter aprire la strada all’approfondimento
di una realtà davvero composita e poco o nulla esplorata,
che, nella sua essenza ultima, è riconducibile e riducibile
alla diffusa attitudine di molte persone a chiudere gli occhi ed
ogni altro canale percettivo alla sofferenza altrui.
Volutamente non ho preso in considerazione gli infiniti episodi
di crudeltà fine a sé stessa quotidianamente perpetrati
ai danni degli animali: per questi sono altre le categorie di riferimento
che vanno dalla presenza di tratti sadici nella personalità
allo spostamento di un’aggressività che trova facile
preda nel più debole. Per certi versi più pericolosa
in quanto disconosciuta e quindi meno facilmente osteggiabile è
l’indifferenza delle brave persone: “Non è grave
il clamore chiassoso dei violenti, bensì il silenzio spaventoso
delle persone oneste” diceva Martin Luther King. Prima di
pensare a come affrontare ed estirpare il male e la violenza, che
da sempre convivono e minano le basi del vivere sociale, è
necessario che la società guardi sé stessa, riconosca
non al di fuori di sé o ai suoi margini, ma anche nelle sue
parti migliori e pure, la presenza dell’Ombra, di una parte
oscura e primitiva.
Solo attraverso la consapevolezza l’uomo potrà forse
migliorarsi: il non voler sapere è sempre una colpa perché
la mancanza di consapevolezza permette all’orrore di perpetuarsi.
Ai confini tra animalismo e psicologia vale la pena concludere
con le parole di Isaac Bashevis Singer, premio Nobel per la letteratura:
“Ogni volta che Herman assisteva alla macellazione di animali
o alla pesca, compiva sempre la stessa riflessione: nel loro comportamento
verso queste creature, tutti gli uomini erano dei nazisti. L’indifferenza
con la quale facevano ciò che volevano di tutte le altre
specie esemplificava la più razzista delle teorie: il
diritto del più forte”.
Bibliografia
Caprara G.V. (a cura di , 1997) Bandura,
Milano Angeli.
Caprara G.V., Malagoli Togliatti M (a cura di ,1996) Il disimpegno
morale in Rassegna di Psicologia, vol. XIII.
Caprara G.V. Storie di ordinaria depravazione, in Psicologia Contemporanea
1998 n. 145.
Attili G, Farabollini F., Messeri P. Il nemico ha la coda, Giunti
1996.
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